Discorso tenuto in occasione del Giorno del Ricordo

Oggi ci troviamo a celebrare una solenne, duplice ricorrenza.

Se come ogni anno ci riuniamo in questo luogo di violenza e di morte per ricordare le vittime degli eccidi delle foibe, e dell’esodo di grandissima parte degli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia dalle loro terre d’origine, questo è insieme il decimo anno che il ricordo di quelle tragedie è stato istituzionalizzato con una Legge della Repubblica, divenendo in tal modo una sentita ricorrenza civile.

Si trattò di un atto legislativo lungamente invocato, approvato a larghissima maggioranza parlamentare, con il quale la Repubblica italiana integrava ufficialmente la storia dell’Adriatico orientale nella storia d’Italia, dando dignità e assicurando un risarcimento storico e morale alle sofferenze patite dai giuliani, fiumani e dalmati in quel secolo di stridenti contraddizioni, di luci e ombre, di civiltà e barbarie, che è stato il Novecento.

Fu un risarcimento per le incomprensioni e il disagio con cui per troppo tempo – nell’Italia ansiosa di ricostruirsi un futuro e di guadagnarsi un ruolo rinnovato nelle relazioni internazionali – si era guardato a quei tragici capitoli di storia nazionale, i quali rimandavano direttamente la memoria alla sconfitta nella guerra d’aggressione, alle mire di rivalsa del nazionalismo jugoslavo, alle violenze sopraffattrici delle ideologie totalitarie. Rimandavano cioè a quel comune passato europeo, sconvolto dai nazionalismi e dai totalitarismi, che qui come in altre parti del continente hanno cercato di imporre modelli di identità monolitici ed esclusivi, incentrati su idee di società autoritarie e violente, illiberali e antidemocratiche.

Furono esperienze luttuose, ferite a lungo non rimarginate su cui in genere si preferì stendere una coltre di reciproche convenienze e di silenzio.

Per troppo tempo quindi la dissoluzione della Venezia Giulia, e la quasi completa dispersione dell’italianità adriatica orientale per effetto del Trattato di pace del 1947, furono visti come avvenimenti fin troppo gravi e traumatici per l’Italia del dopoguerra: un Paese che aveva voglia di ricominciare a vivere, di voltare pagina, per molti aspetti di dimenticare.

E così quel trauma – la frantumazione di una delle regioni simbolo dello sforzo irredentista nella Prima guerra mondiale, la pagina conclusiva del processo di unificazione nazionale – venne quasi rimosso dalla coscienza del Paese, relegato a questione marginale e periferica. Si registrò certo l’impegno diplomatico con cui i governi repubblicani dell’epoca seguirono la “questione di Trieste”; ci furono senz’altro le fiammate di sentimento patriottico, che animavano l’opinione pubblica nei periodi più incandescenti di crisi. Ma il “nodo” rappresentato dall’esodo fu lasciato quasi unicamente alla memoria delle Comunità degli esuli istriani, fiumani e dalmati, scampati dalle loro terre d’origine nel resto del Paese, quando non costretti a fuggire all’estero.

Al loro dolore, al dolore dei parenti delle vittime delle violenze del dopoguerra al confine orientale, alla sofferenza sempre composta ma non per questo meno acuta degli esuli, spesso non fu dato ascolto; così come quasi soltanto a loro – ovunque la diaspora li avesse sospinti, nei campi profughi sparsi per il territorio nazionale e in altre sistemazioni quasi sempre precarie – all’intatta caparbietà e tenacia degli istriani, fiumani e dalmati, fu affidato il compito di ricordare e tramandare il patrimonio di valori e tradizioni di una civiltà straordinariamente vitale: in primo luogo perché plurale, ricca di apporti di storie e culture diverse è da sempre la regione europea dell’Adriatico orientale. Una delle grandi civiltà marittime del Mediterraneo, che ha saputo ritagliarsi nei secoli una fisionomia speciale e riconoscibilissima nell’insieme delle varietà regionali del Paese: un tassello importante e prezioso di quel mosaico di costumi e tradizioni unico al mondo che per certi versi è l’Italia.

Questa è una realtà – dopo dieci anni è il momento di fare un bilancio – molto più compresa e riconosciuta dai nostri connazionali rispetto a quanto lo fosse prima del 2004. E questo, l’aver abbondantemente esteso oltre al confine orientale e alla nostra città (considerata la “capitale morale dell’esodo”) la memoria delle tragedie del secolo scorso e più in generale la conoscenza di una storia articolata come quella dell’Adriatico orientale, è un merito indiscutibile della Legge che istituì il Giorno del Ricordo; ed è uno dei motivi principali che ci consentono di affermare che quella Legge andò a coprire un’esigenza reale e ha raggiunto uno dei suoi obiettivi fondamentali. Basti considerare l’ampiezza dell’impegno divulgativo e didattico che il 10 febbraio stimola ogni anno nelle scuole di tutta Italia, dare un rapido sguardo al fervore di iniziative che ovunque nel Paese accompagnano la celebrazione del Giorno del Ricordo, in un clima che tutti dobbiamo adoperarci per rendere sempre più concorde e riconciliato.

La conoscenza crea consapevolezza, la consapevolezza genera responsabilità e alimenta la maturità civile. Il Giorno del Ricordo da dieci anni rende onore alla memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo; e rafforza la conoscenza della storia dell’Adriatico orientale, in tutte le sue pagine e in tutta la sua complessità, contribuendo in maniera decisiva a inciderla definitivamente nella nostra coscienza di cittadini italiani e di cittadini europei. In questo nobile magistero e in questa altissima valenza civile risiede il significato profondo della ricorrenza di oggi.

 

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